Le meraviglie dell'isola di Pantelleria
Pantelleria è una piccola isola stretta tra l’Africa e l’Europa, che come leve d’uno schiaccianoci la ghermiscono da sempre per strapparle i suoi tesori: la bellezza, la terra lavica, la posizione chiave nel Mediterraneo. I suoi 83 km² (51,5 km di perimetro) la rendono minuscola rispetto ad altre comprimarie, da Malta a Djerba, dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Corsica alle Baleari, fino alle remote isole della Dalmazia e dell’Egeo; eppure, basta lasciarsi dietro l’Aeroporto o le banchine del centro cittadino, per coglierne la complessità, la sua trama di segreti e suggestioni, che fanno di questo scoglio un continente in miniatura, estraneo alle altre terre e somigliante solo a se stesso. Così, malgrado il richiamo della vicina costa tunisina, e il millenario legame con la Sicilia, quest’isola rimane un mondo a sé: un microcosmo di anime e case, valli e altipiani, vulcani assopiti e sciare di fuoco, che non basta una vita ad abbracciare per intero... un continente tascabile, generato dal suo mare, come Venere dalla sua conchiglia. La comunità indigena, neppure 8.000 anime, si concentra per metà nel centro urbano (Pantelleria-Centro), per poi disperdersi in un ventaglio di villaggi: Bugèber, Khàmma e Tràçino, nel nordest; Madonna delle Grazie, Scàuri e Rakhàli, nel sudovest; Bukkuràm, San Vito, Sibà, Monastero e Muègen, nell’entroterra; e ancora, in ordine sparso, Kharèbbi, Khanìa, Conìtro, Kufirà, Khannàkhi, Zighidì, Khazzèn, Dakhalè, Cimillìa e una folla di altre contrade più o meno popolate.
Tutti sono passati da qui, sin dal tardo Mesolitico, quando le tracce dell’umanità incrociavano quelle dell’ossidiana. Nulla si sa di quelle genti, né ci è ancora dato di sapere se fossero stanziali o semplici “pendolari” a caccia di ossidiana e altre risorse; ma da quando, nell’Età del Bronzo, il Popolo dei Sesi si insediò sull’isola, è stato un andirivieni di razze e di culture. Dopo la sua misteriosa scomparsa (intorno al XIV secolo a.C.) e cinque secoli di apparente abbandono, seguiti dalla colonizzazione punica (VIII-III secolo a.C.), la giostra dei conquistatori ricalca quella Siciliana: Romani, Vandali e Bizantini (V-IX secolo d.C.), Arabi, Normanni e Svevi (dall’835 al 1266), Angioini (fino al 1282), Aragonesi e Spagnoli (per oltre 4 secoli), Savoia, Asburgo e Borbone (tra il 1713 e il 1860), e ancora i Savoia fino all’avvento della Repubblica, con l’interludio angloamericano. In mezzo, tanti vagabondi della storia: profughi ebrei e monaci basiliani, mercanti liguri e catalani, le repubbliche marinare tirreniche (con l’incursione del 1087), le flotte turche e barbaresche (nella seconda metà del ’500) e l’eterno spettro della pirateria saracena, svanito solo nel 1830 con l’occupazione francese dell’Algeria.
Coerentemente, la nostra terra ebbe nei secoli nomi differenti: Ogigia, forse, al tempo di Omero; Yrnm (letteralmente, “isola degli struzzi”) in epoca fenicio-punica; Cossyra-Cossura con la conquista romana (“la piccola”, secondo la consueta interpretazione); per arrivare alla versione odierna attraverso infinite mutazioni: Patelaréas-Patalaréas (“padella-piatto”), tratta dal tipico, cioè dall’insieme delle regole del monastero basiliano di Pantelleria, risalente alla dominazione bizantina, ma riferita da fonti più tarde; Patalásca-Patalósca (da un geografo ravennate, VII secolo); Pantalaréa, dal latino medioevale panthèra, cioè “tenda, sotto la quale vengono esposte in vendita le merci nei luoghi pubblici” (dal Carme Pisano, anno 1087); e ancora Panteleón, Pantennellée, Pantanelée, Pantellaría, Panthallaría, Pantaleonéa, Pantalaréa, Pantalarízza, Pantalánza, Pantallaría, Pantellaría, e chissà quante altre versioni. Tra queste, ci spiace non poter annoverare Bent el Rion, la “figlia del vento” di cui tanto si parla, posto che gli arabi, sin dalle loro prime scorrerie, si sono avvalsi di una versione deformata di Cossyra: Qawsarah.
Ciò che non è mai cambiato al mutare delle denominazioni è stato il risultato: da sempre paura e miseria hanno marchiato a fuoco l’isola, ripercuotendosi sul quotidiano e su ogni aspetto della nostra vita, dall’economia all’architettura, alla gastronomia, alla stessa antropologia. Condizionato da una natura ostile e da tanti accidenti climatici, esposto al susseguirsi delle dominazioni e alle intemperanze di ogni nuovo padrone, tormentato dalle scorrerie corsare e affamato dal feudalesimo, al pantesco non restava che fuggire dalle coste e arrangiarsi con quanto il padreterno gli lasciava: i fondi rupestri delle colate laviche e quelli terrazzati dei crinali impervi. Tutto era in funzione della sopravvivenza, a partire dall’architettura, scarna ed essenziale, e sempre subalterna al fondo; i ddammùsi (le tipiche costruzioni rurali, con arco d’ingresso a tutto sesto e volta a botte o a cupola), confinati sul margine dei poderi, erano miseri tuguri spogli di arredamenti e di aperture, limitate alle sole porte d’ingresso e a minuscole prese d’aria. Per secoli la bellezza fu legata semplicemente al caso e al lento processo di adattamento dell’uomo al territorio (arido, pietroso e ventoso) che infinite generazioni di nativi hanno plasmato coi terrazzamenti e una trama di muri e manufatti: quel mondo arcaico e alieno in cui cercare la propria isola nel proprio ddammùsu. Cessata la paura, il nativo rialza la testa, reimpostando l’agricoltura sullo zibibbo (piuttosto che sul cotone) e il commercio sull’uva passa, e nel volgere di pochi decenni potrà perfino affacciarsi alla bellezza e alla qualità della vita, di cui l’aristocrazia e il clero detenevano da sempre il monopolio.
Il ddammùsu si trasforma sin dalle tecniche di costruzione, e dai rozzi prototipi di epoca Tardo-Antica, rigorosamente murati a secco e coi tetti a botte ricoperti di tàiu (un battuto di terra fine ed acqua), si passa alle varianti col tetto a capanna e poi a cupola, e al palazzetto ad uno o più piani. La disponibilità sempre maggiore della calce e l’avvento della volta a padiglione stuzzicano la creatività e favoriscono le aperture, e così logge e volte reali si diffondono rapidamente; allo stesso modo, grazie al crescente tenore di vita, credenze e cassapanche si aggiungono alle nicchie e alle kasène (armadi a muro), e le vecchie pavimentazioni in tuffu (battuto di calce e lapillo) o lastre di pietra vengono rimpiazzate dal cotto siciliano o dalle eleganti maioliche campane, dette Valenza (dal nome dell’importatore), ma in realtà provenienti da Napoli e Vietri.
La cucina non fece eccezione; povera ed essenziale, a differenza di quella siciliana, si affidava alle risorse disponibili sul territorio, e acquisite in autarchia o col baratto, in un contesto economia di sussistenza: capre, maiali e pollame garantivano le proteine, integrate dalla cacciagione e dalla pesca ad uso familiare, mentre l’orto, gli agrumi dei giardini e qualche cereale fornivano vitamine e carboidrati; asini e muli precorrevano i trattori e le autovetture, e l’olio di lentisco rimpiazzava quello d’oliva nei piatti ed il petrolio nelle lanterne; infine, bacche, funghi ed erbe officinali fornivano l’utile e il dilettevole, e il vino e qualche leccornia lenivano le asprezze della vita. Nel tempo, il miglioramento del tenore di vita e i modelli importati dall’esterno hanno inciso sulla nostra gastronomia, che tuttavia resta legata alla terra, tanto che perfino il tradizionale kuskus a base di pesce, è qui infarcito di ortaggi fritti. Del resto, tranne che in epoca punico-romana (in cui il commercio avrà avuto maggior peso), la fertilità del suolo, le asprezze del Canale di Sicilia e la penuria di approdi, oltre al flagello della pirateria, hanno orientato l’autoctono verso l’agricoltura, relegando la pesca ad un ruolo subalterno. Malgrado il progressivo abbandono delle coltivazioni, lo zibibbo è ancora onnipresente, ed è il fiore all’occhiello dell’economia pantesca, regalandoci ottimi vini da tavola e da dessert: il Moscato e soprattutto il Passito, degno concorrente dei più blasonati Sauternes e Tokaj Aszù. Ma l’isola vanta anche il miglior cappero al mondo (Capparis Spinosa Inermis), dai boccioli carnosi e succulenti, ricchi di principi attivi dalle molteplici applicazioni. Dopo questi due colossi, tuttavia, c’è poco altro, a partire dall’olivo (un biotipo più aromatico del biancolilla siciliano), confinato tradizionalmente nei fondi rupestri (tanke) e sottoposto a una spietata potatura per proteggere i raccolti dal vento; residuali e sempre più rare sono le attività pastorali e le piantagioni di legumi (la lenticchia di Pantelleria e una varietà locale di fagiolo, detta lùbbia nostra), cereali (soprattutto orzo e avena) e i frutteti, spesso racchiusi entro giardini simili a fortilizi, per cautelarli dalle raffiche di vento. Insieme ai dammusi e ai terrazzamenti, i giardini caratterizzano il territorio, con le varianti a pianta quadra, rettangolare o curvilinea; questi ultimi, in particolare (circolari, ellittici e a ferro di cavallo), sono esclusivi della nostra terra, tanto da poterli chiamare con orgoglio giardini panteschi […]
Tipico del bacino sud-orientale del Mediterraneo, e importato forse al tempo della dominazione araba, il “moscato d’Alessandria”, è da sempre il vitigno più diffuso e rappresentativo del nostro palcoscenico rurale. Dal suo mosto, dolce e inebriante, si ricavano oltre ad ottimi bianchi secchi e al moscato propriamente detto (ottenuto dalla fermentazione dello zibibbo più maturo o semiappassito, con un grado alcolico di almeno 11% vol e 60/70 g di zucchero), il più celebre passito, il vino da meditazione per eccellenza, dal colore ambrato e dal profumo intenso e ineguagliabile, che nasce dalla fermentazione di un mosto di zibibbo rimpolpato di uva passa, con 140 g circa di zucchero e un grado alcolico del 14%. In ultimo, dai racemi dello zibibbo (il secondo frutto, qui detto sgangùni) si ottiene un vino meno aromatico ma ugualmente apprezzato, da produrre in purezza o abbinato con uve più secche, come il catarratto.
La varietà più pregiata del nostro cappero, selezionata insieme ad altri tre biotipi endemici (Çiavulara, Testa di lucertola, Spinoso di Pantelleria), è la “Nocellara”, rinomata sia per l’intensità del corredo aromatico che per la corposità del bocciolo. È un arbusto resistentissimo al vento e alla siccità, capace di attecchire anche nei suoli più impervi, del quale si sfrutta principalmente il bocciolo, cioè il cappero propriamente detto, consumato al naturale dopo due cicli di salatura e disponibile tradizionalmente in tre pezzature: la più minuta, usata nei condimenti e nelle insalate; la media, buona ad ogni uso; e la maggiore, adatta alla preparazione di salse e paté. Più di recente lo si propone anche essiccato, intero o in polvere. Se ne apprezzano anche i frutti, detti cucùnci, sotto sale o sott’olio; e ancora i semi, le foglie e perfino la radice, per uso medicinale. Fiorisce da maggio a settembre, dispensando un nuovo raccolto ogni dieci giorni, per 3 mesi di fertilità.